Corre l’anno 2017 e lo scenario non è dei più rassicuranti. Donald Trump è il 45º presidente degli Stati Uniti d’America, la lobby del biologico al grido del gluten-free ha dichiarato guerra contro tutto ciò che contiene olio di palma. Si chiude tristemente anche ogni spiraglio alla riabilitazione storica del mullet. La voce corre da tempo nei corridoi delle agenzie che vendono sogni di gloria online e tra coloro che hanno costruito la propria carriera cercando di mettere sotto scacco i bug di Internet Explorer: i siti web non se la passano troppo bene.
Chi lavora in simbiosi con la rete lo sa, tutto corre velocemente e l’obsolescenza è dietro l’angolo. Anche MySpace da gran figata divenne un luogo dantesco popolato quasi esclusivamente da orde di musicisti che vagavano in cerca di ingenui ascoltatori da stressare per piazzare la propria playlist metalcore. Ogni periodo storico ha il suo malato da sacrificare sull’altare del progresso e questa volta sembra che il paziente agonizzante sia proprio il sito internet. Forse sarà questione di pochi anni per assistere alla sua completa estinzione.
Oggi ha ancora senso avere un sito internet?
È una domanda più che legittima soprattutto quando a farsela è un esercito di piccole e medie imprese che hanno procrastinato per anni lo scialacquamento del budget nella comunicazione online e sperano ora di cavarsela con una paginetta Facebook. La risposta è altrettanto legittima se dall’altra parte ci sono persone come me che lavorano progettando siti. A parte gli scherzi, non sono mai stato un sostenitore dell’accanimento terapeutico, anche se l’immagine decadente del quartetto d’archi che continua la sua session mentre la nave affonda esercita il suo fascino.
Per rispondere alla domanda forse è necessario riflettere su cosa rappresenta davvero un sito. Fondamentalmente è un mezzo di comunicazione e come tutti i media può risultare più o meno efficace in relazione al contesto storico, sociale e quindi tecnologico in cui gioca la sua parte. Il primo sito ha fatto la sua comparsa nel 1991 grazie agli sforzi di alcuni pionieri che sognavano una rete accessibile e alla portata di tutti. Righe su righe di codice per avere pagine dai testi monolitici che non potevano ambire alla libertà grafica della carta stampata. Siti tristi e anonimi che tra l’altro non erano alla portata di tutti. Avere un sito infatti era un lusso che solo una ristretta cerchia di realtà aziendali poteva permettersi. Le raccapriccianti funzionalità e la quasi totale assenza di interazione online erano compensate però dal valore aggiunto in termini di immagine, visita il nostro sito (la concorrenza non ne ha ancora uno)!
Poi la componente visual ha preso il sopravvento. Le connessioni sempre più veloci hanno liberato la creatività sotto forma di immagini e di design permettendo il proliferare di siti. Internet Live Stats ne conta in questo momento 1,172,042,932. Alla base del successo c’è l’esigenza di comunicare, condividere e diffondere idee costruendo un avamposto online in cui sia possibile dichiarare la propria unicità. I contorni che delimitano le differenze tra utente e persona sono sempre più sfumati convergendo nella creazione di un’unica identità di chi vive quotidianamente connesso e affida la memoria alle bacheche dei social.
Sito contro canali social
Sebbene siano strettamente interdipendenti svolgono ancora funzioni diverse. I social sono il luogo dove nasce, cresce e si affossa il dibattito, l’arena del confronto-scontro insomma. Il sito invece è casa tua, il tappetino con la scritta welcome invita l’ospite a pulirsi le scarpe prima di oltrepassare la soglia. In linea di massima vige ancora una netiquette che mette al riparo da incursioni che degenerano in atti di vandalismo da festa adolescenziale sfuggita di mano. Sui social il confine tra il tuo spazio ed il mio non è sentito in modo così vincolante. I grossi brand l’hanno imparato a proprie spese credendo che bastasse cancellare un commento per fronteggiare una critica. Infatti sui social vi è una percezione diffusa di parità tra gli interlocutori a differenza del sito web, il luogo istituzionale dove puoi essere ciò che vuoi. Se qualcuno non è d’accordo al massimo cambia aria e non passa più a trovarti.
Le informazioni che troviamo riportate sui social sono spesso le stesse che troviamo nelle pagine del sito. Con una manciata di testo puoi descrivere chi sei, i servizi che proponi, presentare prodotti e abilitare il tasto compra, mettere in evidenza gallerie fotografiche e video, ma il risultato è lontano dall’essere appagante. Anche la pagina social veicola la tua mission, ma il livello di ufficialità non sarà mai totale perché risponderà sempre ad un vertice, a delle linee guida, ad una quotazione dei titoli in borsa che vanno al di là delle tua volontà. Le persone sentono il bisogno di presentare la propria realtà in maniera personale e la struttura del social non permette ancora questa libertà.
Penso quindi che il sito web rimanga ancora il manifesto più puro dell’identità personale nonostante venga spesso snobbato a favore dell’immediatezza dei canali social. Il venir meno della sua centralità, in alcune strategie di business online, è però un dato di fatto e non è così remota la possibilità che possa perdere definitivamente il primato di luogo in cui avvengono le conversioni. Oggi la stragrande maggioranza di progetti e aziende ha bisogno ancora di questo canale istituzionale, ma la sua longevità credo che dipenderà dalle mire espansionistiche dei social network, dalla politica di Google, e da quanto le nostre stesse pagine web si renderanno permeabili a nuove tecnologie e funzionalità. In definitiva, i siti web resisteranno al cambiamento? Non ne ho idea, ma spero che tengano duro come gli imbustatori dei market d’oltreoceano fronteggiano Amazon Go.
IMMAGINE DI COPERTINA TRATTA DAL FILM Birdman.
Sono lontani i tempi in cui in bagno si leggevano le etichette degli shampoo…