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Perché le pubblicità di biancheria intima ruotano tutte attorno a corpi scolpiti? Se sei fuori forma non ti resta altro che la foglia di fico? Perché vediamo pressoché uomini al volante di un nuovo modello di auto? Quel desiderio di libertà che vogliono venderci è appannaggio solo del pubblico maschile? Per non parlare poi di quegli argomenti permeati da un velo di tabù e segretezza. Mi riferisco, ad esempio, all’incontinenza urinaria. Una donna su tre soffre di questo disturbo non proprio legato all’età. Eppure, il target pubblicitario è quasi esclusivamente costituito da un pubblico di anziani, pronti a recepire il messaggio, magari dopo essersi fatti rifilare un bell’apparecchio acustico.

 

 

 

 

Gli stereotipi di genere nella pubblicità

Semplificare la realtà oggi è più che mai un’idea folle. Oltre a non garantire risultati commerciali, rivolgere la comunicazione pubblicitaria a soggetti monodimensionali stereotipati, può erodere l’immagine di un brand. Gli angeli del focolare risolvono ogni bega domestica alla faccia del sesso maschile, rappresentato ancora come un perfetto incapace tra le mura di casa. Non è solo un retaggio della réclame anni 60.

 

È il risultato di una regia che parla a sé stessa guardandosi allo specchio.

 

Alcuni studi hanno rilevato che le donne rappresentano solo un terzo di tutti i personaggi negli spot pubblicitari. Nel 2006 la presenza femminile si fermava al 33,9% raggiungendo dieci anni dopo solo il 36,9%. Inoltre, secondo il test di leggibilità di Flesch, i dialoghi delle donne sono leggermente più semplici di quelli maschili.

Lorraine Twohill, chief marketer di Google, ha centrato in pieno l’argomento. La diversità va ben oltre il sesso o il colore della pelle. È anche una questione di età, geografia, differenze socioeconomiche e relative professioni, capacità e sessualità. Gli stereotipi di genere caratterizzano la gran parte della comunicazione pubblicitaria, ma qualcosa sta cambiando.

 

 

 

 

Un marketing per tutti

Alcuni brand hanno raccolto la sfida puntando su un approccio più autentico e naturale. Benvenuto allora marketing inclusivo! La figura della donna, ad esempio, assume un carattere più aderente alla realtà con un’estetica lontana da filtri. L’imperfezione è il vero valore aggiunto, da mostrare e non nascondere.

Questo nuovo approccio sembra che stia dando i suoi frutti e non mi riferisco solo all’aspetto commerciale. I brand entrano in sintonia con i consumatori che premiamo il rispetto per la diversità. Il 70% dei Millennial è più propenso infatti verso un brand inclusivo. I consumatori prendono familiarità con una molteplicità di visioni della società che attraverso la comunicazione pubblicitaria vengono sdoganate.

Il marketing inclusivo non ha come riferimento quindi un solo target demografico. Con questo approccio il brand vuole dialogare con tutti tenendo conto che le diversità che caratterizzano un individuo lo rendono unico e speciale. Definirla una semplice strategia è riduttivo. Il messaggio pubblicitario si adatta alla community che l’azienda vuole corteggiare. Prendi ad esempio McDonald’s, la sua comunicazione riflette le connotazioni del paese in cui opera. Un messaggio per il consumatore americano non avrà lo stesso appeal su quello italiano.

Ogni luogo riflette insomma i valori, le aspettative e la storia di un popolo. Anche all’interno della stessa cultura emergono delle macro-differenze. Piccole community che sfuggono ad un inquadramento basato esclusivamente sull’etnia. Le ricerche di mercato focalizzano l’attenzione sull’approccio comunicativo affinché sia il più autentico possibile. Anche il linguaggio si fa quindi inclusivo con enorme risalto delle parole nostro e noi. Il discorso di insediamento del Presidente Obama è un chiaro esempio, con 142 parole di inclusività in soli 20 minuti.

 

 

 

 

Il rischio di non essere inclusivi

Il marketing inclusivo non dovrebbe essere il caposaldo della tua comunicazione solo per raggiungere il maggior numero di clienti possibili. In gioco c’è la responsabilità sociale, piccola o grande che sia. Ogni immagine che accosterai alla tua azienda, ogni slogan promozionale può avere un forte impatto sulla comunità.

C’è il rischio che l’eco del dissapore per scelte non proprio felici venga amplificato sul web. Le persone si sentono in dovere di far sentire la propria voce rispondendo muro contro muro. Non è il caso che si associ il concetto di esclusione sociale alla tua azienda. Un po’ come accaduto per la catena H&M che nel 2018 aveva lanciato una campagna dagli effetti disastrosi. Un bambino di colore che indossa una felpa con su scritto la scimmia più bella della giungla si può considerare una strategia vincente? Sono finiti i tempi per cui valeva il motto purché se ne parli…oggi siamo lontani da questo tipo di marketing. Risultato finale: danno di immagine a livello mondiale, chiusura punti vendita in Africa e grave perdita finanziaria.

 

 

 

 

Iniziare a praticare un marketing inclusivo è una scelta dettata dalla consapevolezza. Dalla conoscenza diretta della realtà in cui operiamo. Non si tratta di portare a casa un risultato o di lanciare una campagna fine a sé stessa che cavalchi magari qualche fatto di cronaca. L’inclusività è nel tono della comunicazione, nel tipo di umorismo, nella neutralità del linguaggio, nella scelta di mettere al bando tutti gli stereotipi.
 

IMMAGINE DI COPERTINA TRATTA DAL FILM Deadpool.

 

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