Qual è la prima cosa che ti viene in mente quando parliamo dell’Africa? Questo continente ricco di paesaggi mozzafiato e diversità culturale può farti sognare: paesaggi iconici come il Monte Kilimangiaro, le dune del deserto del Sahara o il Delta dell’Okavango; elefanti, leoni, giraffe, zebre o rinoceronti che scorrazzano nelle riserve naturali e nei parchi nazionali; tribù con i loro abiti tradizionali, danze e rituali; mercati vivaci e colorati, con bancarelle piene di prodotti locali, artigianato e cibo. Ma dovresti sapere che per ogni paradiso esiste anche il suo inferno e nel caso dell’Africa è ben rappresentato da carestie, guerre, miseria e tanta fame. Tra questi due estremi però si intrecciano le vite di un miliardo di persone.
La comunicazione oggi è ancora intrappolata nel dualismo narrativo paradiso – inferno
I media tendono a concentrarsi sulle situazioni straordinarie, sulla spettacolarizzazione della notizia (ciao ciao Barbara…). Non è affascinante documentare la vita di centinaia di milioni di africani che non si svegliano in un campo profughi, che non hanno mai visto un leone divorare una gazzella o che mangiano tanto da allertare il dottor Nowzaradan. Nonostante anche questa sia la quotidianità delle persone in Africa, il continente più ricco del pianeta rimane stereotipato a uno spazio monolitico di violenza e povertà. La narrazione contribuisce a rafforzare la costruzione del sé europeo come civilizzato in contrapposizione all’abitante autoctono infantile e non ancora in grado di camminare con le sue gambe.
La pornografia del dolore
Bambini africani fotografati nudi, coperti di mosche, denutriti e ammalati sono una componente pressoché scontata nella comunicazione anche di quelle realtà che hanno fatto della solidarietà la loro unica mission. Ong e onlus adottano, molto spesso inconsapevolmente, strategia di marketing che sfruttano o manipolano le emozioni negative delle persone, come il dolore, la tristezza o la sofferenza. Rimangono intrappolate nella dialettica del marketing del dolore che vuole suscitare un’intensa risposta emotiva nelle persone.
Parliamo di immagini drammatiche che servono per descrivere situazioni di difficoltà o sofferenza per suscitare compassione e generare un senso di urgenza per aiutarle. Lo scenario che si apre è fortemente controverso ed eticamente discutibile. La scelta di ritrarre, ad esempio, una giovane vita ammorbata dalla malaria catalizza l’attenzione dello spettatore innescando inconsciamente un senso di colpa e invitandolo all’azione. Il risultato potrebbe apparentemente essere positivo concretizzandosi in una donazione economica, ma quale sarebbe il costo in termini della dignità delle persone coinvolte?
Queste immagini fanno appello al senso occidentale del dovere morale
I bambini sono delle vittime, prive di colpa, ma anche prive di storia. Vestiti strappati e facce sporche sono l’indicatore del disagio. Non importa che il contesto sia quello della periferia urbana o del villaggio rurale, i bambini abbandonati, orfani e sofferenti ti fanno pensare al contrasto con la vita dei loro coetanei che nella tua parte del mondo hanno avuto quell’opportunità che a loro non è mai stata data o, per dirla in altro modo, che hanno il culo nel burro. Queste cartoline della sofferenza creano una narrazione che giustifica gli interventi dei volontari suggerendo che i bambini non riceverebbero cure o attenzioni altrimenti.
Portare lo spettatore a empatizzare con una Shirley Temple dell’Africa Subsahariana serve per integrarlo nel meccanismo del volontariato. Lo storytelling di queste immagini suggerisce che i volontari forniscono assistenza all’infanzia perché gli adulti sono assenti, non disposti o non attrezzati per farlo, presumibilmente perché la nazione non è in grado di sostenere la popolazione dei ceti inferiori. Lo spettatore, sposandone la causa, entrerà a far parte dell’ingranaggio sbloccando quell’ easter egg che è la promessa di felicità e di una vita più serena.
Concludendo
Non fraintendere quello che ho scritto, non ho nulla in contrario con chi si prodiga per aiutare il prossimo. Non me ne frega nulla neanche delle motivazioni che ci spingono ad aiutare un’altra persona. Penso solo che uno storytelling differente oggi possa sortire effetti migliori. Chi lavora nella comunicazione ha una responsabilità pazzesca, un obbligo morale nel cercare di mitigare trend, usi e costumi. Fotografi, designer, illustratori, scrittori, registi e tutto il circo che si portano dietro per creare rappresentazioni visive di idee e messaggi in riviste, libri, pubblicità, siti web, e film hanno un enorme impatto sulla costruzione del significato nel mondo. Basta poco che ce vò!
IMMAGINE DI COPERTINA TRATTA DAL FILM E.T. l’extra-terrestre.
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