Non è un segreto che il mondo reale in cui opera il designer non è il mondo dell’arte, ma è quello del business. Il fatturato, e non il design, è l’unica ragion d’essere di qualsiasi organizzazione aziendale. A differenza dell’imprenditore, però, la motivazione prevalente del designer è l’arte: arte al servizio dell’impresa, arte che migliora la qualità della vita e approfondisce la conoscenza del mondo che lo circonda.
Il design è un’attività di problem solving
Fornisce gli strumenti per chiarire, sintetizzare e spettacolarizzare una parola, un’immagine, un prodotto o un evento. Un serio ostacolo alla realizzazione di un buon design, tuttavia, sono i livelli di gestione insiti in qualsiasi struttura burocratica. Perché a parte il puro pregiudizio o la semplice inconsapevolezza, ci si può imbattere in assurdità come il ripensamento, l’ossequio, l’ostentazione, la pignoleria e l’arrivismo, per non parlare delle soluzioni di ripiego come le riunioni di comitato e le task force. Il problema, a quanto pare, non è né la malvagità né la stupidità, ma la fragilità umana.
Il buon funzionamento del processo progettuale può essere ostacolato in altri modi, dal dirigente insensibile, che in materia di design non comprende né il proprio ruolo né quello del progettista; dal pubblicitario impaziente ma prudente la cui preoccupazione principale è compiacere il suo cliente; e dal cliente insicuro che dipende da indagini non ufficiali e ricerche pseudo-scientifiche per affrontare domande senza risposta e risposte discutibili.
A meno che la funzione di progettazione nella burocrazia aziendale non sia strutturata in modo tale da rendere possibile l’accesso diretto al decisore finale, cercare di produrre un buon lavoro è molto spesso un esercizio di futilità. Non conoscere la storia e la metodologia del design – come il lavoro viene concepito, prodotto e riprodotto – accresce le difficoltà e le incomprensioni.
Il design è uno stile di vita, un punto di vista. Coinvolge l’intero complesso della comunicazione visuale: talento, capacità creativa, manualità e conoscenza tecnica. Estetica ed economia, tecnologia e psicologia sono intrinsecamente legate al processo.
Uno dei problemi più comuni che tende a creare dubbi e confusione è causato dal dirigente inesperto e ansioso che innocentemente si aspetta, o addirittura chiede, di vedere non una ma molte soluzioni a un problema. Questi possono includere una serie di concetti visivi e/o verbali, un assortimento di layout, una varietà di immagini e combinazioni di colori, nonché una scelta di stili di testo. Ha bisogno della rassicurazione dei numeri e della possibilità di esercitare le sue preferenze personali. È anche molto probabile che sia lui a insistere su infinite revisioni con scadenze non realistiche, aggiungendosi a un rituale già dispendioso in termini di tempo. In teoria, un gran numero di idee assicura un gran numero di scelte, ma tali scelte sono essenzialmente quantitative. Questa pratica è tanto sconcertante quanto inutile. Scoraggia la spontaneità, incoraggia l’indifferenza, e il più delle volte produce risultati che non sono né brillanti né interessanti, né tantomeno efficaci. In breve, le buone idee raramente arrivano a mazzi.
Il designer che volontariamente presenta al suo cliente una serie di proposte non lo fa quindi per prolificità, ma per incertezza o paura. Incoraggia così il cliente ad assumere il ruolo di arbitro. In caso di reale necessità, però, l’abile progettista è in grado di produrre un numero ragionevole di buone idee. Ma la quantità [di idee] ottenute su richiesta è molto diversa da quella che si ottiene per scelta. Il design è un’occupazione che richiede tempo. Qualunque siano le sue abitudini lavorative, il designer scarta molte idee per produrne una buona. Le agenzie pubblicitarie possono avere gran parte della colpa in questo gioco di numeri. Decise a impressionare il cliente con il loro ardore, presentano una marea di layout, molti dei quali sono interpretazioni superficiali di idee potenzialmente buone o scaltre rappresentazioni di quelle banali.
Le dinamiche interne all’agenzia di comunicazione costituiscono un ulteriore ostacolo, di cui il committente è spesso all’oscuro. Persone non qualificate per esprimere giudizi di progettazione vengono spesso chiamate ad avere l’ultima parola. La gerarchia viene quindi utilizzata come ulteriore prova di competenza. Nonostante accetti gentilmente e apprezzi le critiche quando provengono da una fonte autorevole, la maggior parte delle persone si risentirà (apertamente o meno) quando queste deriveranno esclusivamente da una posizione di potere, anche se il manager fosse molto intelligente o avesse un autoproclamato buon gusto.
In discussione non è il diritto, e nemmeno il dovere, di interrogarsi, ma il diritto di esprimere un giudizio progettuale. Tale uso improprio dei privilegi è un disservizio nella gestione ed è controproducente per un buon design. Competenze in amministrazione aziendale, giornalismo, contabilità o vendita, sebbene necessarie, non servono a risolvere i problemi che riguardano l’aspetto visivo. Il venditore che può venderti il più sofisticato setup di computer è raramente uno che apprezza la tipografia raffinata o le proporzioni eleganti. In realtà, la pletora di cattivo design che vediamo intorno a noi può probabilmente essere attribuita tanto alla buona capacità di vendita quanto al cattivo gusto.
Profondamente interessato a ogni aspetto del processo produttivo, il designer deve spesso fare i conti con personale di produzione inesperto e procedure di acquisto che richiedono tempo, soffocando l’entusiasmo, l’istinto e la creatività. Sebbene marginalmente coinvolti nel giudizio estetico, la maggior parte degli agenti di vendita ignora le pratiche del design, sono insensibili ai dettagli sinonimo di qualità e sono inconsapevoli delle esigenze di marketing. Preoccupati principalmente e giustamente di ridurre i costi, equiparano erroneamente l’eleganza alla stravaganza e la parsimonia al saggio giudizio negli affari.
Questi problemi non sono affatto limitati alle grandi aziende burocratizzate. Artisti, scrittori e altri professionisti nel campo della comunicazione e delle arti visive, nel governo o nell’industria privata, nelle scuole o nelle chiese, devono costantemente confrontarsi con coloro che non capiscono e quindi non empatizzano con loro idee. Il progettista è particolarmente vulnerabile perché il design è farina del sacco di tutti. “So cosa mi piace” è il massimo della competenza di cui una persona ha bisogno per sostenere le proprie aspirazioni critiche.
Come l’uomo d’affari, il designer è in balia delle proprie fragilità, ma a differenza del primo, è spesso confuso. Questo è un problema serio che nasce su un terreno di scontro in cui spesso sorgono difficoltà semantiche. È insito nella progettazione grafica più che nel campo industriale o architettonico, perché la progettazione grafica è più aperta alle preferenze estetiche che alle preferenze funzionali.
La testardaggine può essere una delle qualità ammirevoli o famigerate del designer (a seconda del punto di vista): un rifiuto per principio al compromesso o un mezzo per camuffare l’inadeguatezza. I cliché del design, i modelli privi di significato, le illustrazioni alla moda e le soluzioni predeterminate sono segni di tale debolezza. La comprensione del significato di modernità e la familiarità con la storia del design, della pittura, dell’architettura e di altre discipline, che contraddistinguono il designer colto e rendono il suo ruolo più significativo, non sono i punti di forza di ogni designer.
Il designer, però, ha bisogno di tutto il supporto che può raccogliere, perché la sua è una posizione unica ma non invidiabile. Il suo lavoro è soggetto a ogni interpretazione immaginabile e al più insignificante dei fact finding.
Per assurdo cerca non solo l’applauso dell’intenditore, ma l’approvazione della folla
Un rapporto di lavoro salutare non è solo possibile, ma fondamentale. I designer non sono sempre intransigenti, né tutti gli agenti di vendita sono ciechi di fronte alla qualità. Molte agenzie pubblicitarie responsabili sono consapevoli del ruolo che il design gioca come forza comunicativa. L’uomo d’affari che è empatico e comprensivo non è un miraggio. È professionale, obiettivo e attento alle nuove idee. Ripone la responsabilità in chi spetta e non si sente abbastanza insicuro da considerarsi un esperto in un campo diverso dal suo. Egli è, inoltre, in grado di creare un ambiente armonioso in cui possono fiorire buona volontà, comprensione, spontaneità e fiducia reciproca, qualità così essenziali per la realizzazione del lavoro creativo.
Allo stesso modo, il grafico esperto è un professionista il cui mondo è diviso tra lirismo e pragmatismo. È in grado di distinguere tra tendenza e innovazione, tra oscurità e originalità. Usa la libertà di espressione non come licenza per idee astruse, e la tenacia non come testardaggine, ma come prova delle proprie convinzioni. Il suo è uno spirito indipendente guidato più da uno “standard artistico interiore di eccellenza” che da qualche influenza esterna. Nello stesso momento in cui si rende conto che un buon design deve resistere ai rigori del mercato, ritiene che senza un buon design il mercato sia una vetrina di volgarità visiva.
Le arti creative hanno sempre operato in condizioni avverse. L’emozione della soggettività e l’opinione sembrano coincidere con la questione artistica. Il profano si sente insicuro e imbarazzato nell’esprimere giudizi progettuali, anche se finge di formularli con una certa competenza. Ma, piaccia o no, le condizioni aziendali costringono molti a essere indissolubilmente coinvolti in problemi in cui il design gioca un ruolo.
Per la maggior parte, la creazione o gli effetti del design, a differenza della scienza, non sono né misurabili né prevedibili, né i risultati sono necessariamente ripetibili. Se c’è qualche certezza, oltre alla fede, che un uomo d’affari può avere, è la scelta di designer talentuosi, competenti ed esperti.
Il design significativo, il design della qualità e dell’ingegno, non è un risultato da poco, anche in un ambiente in cui il buon design è compreso, apprezzato e profondamente accettato, e in cui il profitto non è l’unico fine. Nella migliore delle ipotesi, il lavoro che pretende di distinguersi è l’eccezione, anche nelle migliori circostanze. Dopotutto, la nostra epoca può vantare un solo Cassandre.
Il testo è una traduzione e adattamento di A Designer’s Art di Paul Rand (Yale University, 1985).
IMMAGINE DI COPERTINA TRATTA DAL FILM Bird Box.
Che fai, te ne vai senza aver letto questo?